(NON) HO SPOSATO LA PROCLEMER, MA…
 

“Hai sposato la Proclemer!”

Mi torna in mente il grido festante e sorpreso di Soldati, al telefono dal suo eremo di Tellaro. Immerso ormai nelle nebbie dell’età avanzata, Mario aveva fuso e frainteso le due distinte notizie che gli avevo comunicato: quella del mio recente secondo matrimonio e quella della mia imminente partenza, in compagnia di Anna, per una cura dimagrante da tempo prenotata in una beauty farm meranese. Mentre tentavo invano di chiarire l’equivoco con il mercuriale e intransitivo interlocutore, fui colpito dal pensiero che l’evento ipotizzato nella sua follia sarebbe stato, in fin dei conti, non del tutto impossibile: vedova lei, vedovo io;  coetanei o quasi; trentina lei, io triestino (Trento e  Trieste!, lo storico abbinamento della Prima guerra). E poi tanta simpatia reciproca, interessi in comune, un’amicizia di lunga data… E allora perché no?

Ricordo che messo giù il telefono mi scoprii quasi lusingato per la clamorosa svista di Soldati; e tosto mi abbandonai a una fuggevole riflessione su quella che Svevo chiama “l’incomparabile originalità della vita”. Pensai a che cosa avrei detto, quasi mezzo secolo prima, dell’eventualità che un giorno qualcuno (sia pure sbagliando) potesse congratularsi con me per aver sposato la Proclemer. Mi riferisco all’estate del ’48, ovvero alla prima volta che ebbi l’occasione di contemplare Anna fuori scena. Avvenne a Trieste, in casa delle sorelle Gherarducci, Mimma e Vera, che dopo una breve carriera come attrici sposarono rispettivamente Ivo Garrani e il regista Vittorio de Seta. In quell’ospitale attico di via delle Zudecche avevamo l’abitudine, noi ragazzi del Teatro d’Arte dell’Università, di far festa ai commedianti di passaggio, trascorrendo serate indimenticabili ad ascoltare Memo Benassi, Orazio Costa, Tino Carraro e tanti altri. Finché nell’estate del ’48 arrivò il turno del regista Sandro Brissoni con i suoi interpreti del Sogno di una notte di mezza estate messo in scena nel Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto. Nel gruppo la sfolgorante Anna (che faceva Elena) era l’indiscussa regina, accompagnata da un consorte adeguato al suo rango e da noi venerato come scrittore, il caustico e geniale Vitaliano Brancati. Ai sovrani si rivolge la parola solo se interpellati; e infatti in presenza della coppia carismatica non credo che osai spiccicar parola. Per timidezza, ma anche perché non ne ebbi il tempo. Infatti da un minuto all’altro accadde qualcosa di incredibile. Stavamo facendo, considerata l’ora tarda, un chiasso eccessivo e all’improvviso arrivò la polizia civile del Territorio Libero, quelli che a Trieste per il casco bianco chiamavano “i cerini”. I coniugi Brancati, che casualmente si trovavano vicini all’ingresso, subirono la prima poco riguardosa contestazione. Vitaliano obiettò qualcosa alla brutale malagrazia di quei suscettibili rappresentanti della legge, che stimandosi vilipesi lo arrestarono seduta stante. Anna tentò di interporsi, magari le sfuggì qualche parola irritata in più e i cerini si portarono via anche lei… Mentre noi, passato lo sconcerto, restammo sul posto a fare chiasso come prima, i nostri ospiti di riguardo finirono in  guardina: a lui levarono la cintura e le stringhe delle scarpe timorosi che si suicidasse, lei finì tra le prostitute delle retate e così trascorsero la più surreale nottata della loro vita. In seguito la Proclemer ha spesso rievocato pittorescamente l’episodio suscitando nell’uditorio una divertita incredulità.

Questo fu per me il primo incontro con Anna nella vita reale. Sul palcoscenico, negli anni che seguirono, ebbi frequenti occasioni di ammirarla. Non posso ricordare tutti gli spettacoli, per vedere i quali fino al mio trasferimento a Milano nel ’53 prendevo volentieri il treno. E facevo bene perché quello era un  momento magico del teatro nostrano, una nuova travolgente ondata di cui personaggi come la Proclemer erano partecipi a pieno titolo. Posso dire, a questo proposito, che chi non ha visto Il gabbiano messo in scena da Giorgio Strehler al Piccolo di Milano verso la fine del ’48 non conoscerà mai il vero volto della Nina di Cechov: Anna Proclemer vibrante di passione e dolore precoce nel dividersi tra un ispirato Giorgio De Lullo, che era Costantino, e un Gianni Santuccio affascinate e malinconico Trigorin. Se gli attuali ventenni ci invidiano la nostra giovinezza teatrale, ne hanno ben donde: dove trovare oggi uno spettacolo così intensamente generazionale, così classico e nello stesso tempo moderno e tanto pieno di talenti diversi come quell’irripetibile Cechov strehleriano?

Venne poi la straordinaria maturazione a vista di Anna, che dopo esser stata nel ’52-’53  la dolcissima e nevrotica Ofelia dell’Amleto di Gassman, nella stagione successiva si ripresentò nel ruolo della regina Gertrude. Sempre fuori età, troppo matura come vergine vittima e assurdamente giovane come madre scenica di Vittorio; ma impeccabile in entrambe le situazioni. Più avanti, quando dal ’56 la nostra formò la compagnia coniugale di lunga durata con Giorgio Albertazzi, non mi persi più nemmeno una delle sue apparizioni all’Odeon milanese, di cui ricordo soprattutto la Ragazza di campagna di Odets, degna spalla di una leggenda della scena come Renzo Ricci e più convincente dell’Oscarizzata Grace Kelly nell’omonimo film; e poi almeno una veemente Mila di Codra magistrale nello scandire i versi di La figlia di Jorio, che segnò l’inizio della mia riconciliazione con d’Annunzio. Perché Anna, sempre a casa sua nel mondo della letteratura, si affermò ben presto come una di quelle presenze che dal palcoscenico fanno cultura trasmettendo sensazioni e messaggi non effimeri e inserendosi come parti in causa nella battaglia delle idee.

Per qualche anno fui anche critico teatrale di un settimanale e mi incuriosisce riscoprire ciò che scrissi su Anna. Traggo un’autocitazione da “Settimo Giorno” (numero 49, 1960): “Anna dei miracoli di William Gibson va visto soprattutto per Anna Proclemer: ha tutta l’aria di segnare il suo passaggio da bravissima interprete a grande attrice. Che non è un’iperbole, ma un fenomeno quasi medianico che si verifica molto raramente. Questa Annie Sullivan dall’andatura un po’ sbilenca, dai modi quasi sgraziati e dai gesti troppo larghi è un capolavoro  di adesione totale al personaggio: in tutti i momenti, senza eccezione, un’apparizione emozionante.” Per ringraziare la Signora mi scrisse una letterina, che non posso riportare perché l’ho depositata con altri documenti consimili al Museo dell’Attore di Genova. Dallo scambio nacque un rapporto che poi diventò più personale e amichevole con il mio trasferimento a Roma, fine anni ’60, e qualche simpatico invito nella residenza campagnola di Giorgio e Anna sulla strada per Fiano. Questa bella consuetudine ospitale, che riuniva una festosa compagnia di teatranti coin bagni in piscina e colazioni all’aperto, ebbe termine quando si sciolse il sodalizio fra i padroni di casa e la conseguente vendita di una proprietà diventata inutilmente grande e troppo costosa. A tale proposito voglio annotare una reazione caratteristica di Anna, che dopo qualche tempo mi raccontò di essere stata gentilmente invitata a una gran cena dal nuovo proprietario della villa. Alla mia domanda con quale animo fosse rientrata da estranea in una cornice che era stata intimamente sua per alcuni anni felici, mi rispose di non aver provato proprio niente, come quando si va in  casa d’altri.

Trovo questa connotazione tipica del carattere schietto e ruvido della nostra, che ha un fondo pedemontano, pragmatico, qualcuno dice duro. E’ adusa valutare gli accadimenti quotidiani e la gente che la circonda, ma anche le letture e gli eventi artistici,  con vigile obiettività, senza nascondere eventuali ostilità e rancori, ma senza mai farsene un problema. Del suo modo di vedere la vita in tutti i suoi aspetti testimonia il  bellissimo libro che ha scritto sul suo rapporto con Brancati, schietto e rispettoso senza fare sconti né a se stessa né al compagno di vita. Una narrazione esemplare e stilisticamente notevole perché Anna Proclemer scrive limpida e inequivocabile, proprio come recita; ed è un peccato che si conceda a questa attività solo saltuariamente.

Se dovessi avvicinare la recitazione di Anna Proclemer con qualche altra forma artistica propenderei per la scultura. I suoi personaggi non fanno pensare a pitture o disegni perché sono tridimensionali. Il suo timbro vocale, quasi da contralto, è una consolazione per lo spettatore duro d’orecchi come mi capita di essere ormai da parecchi anni. Anna “stampa” le battute e le invia a sicura destinazione con elegante sicurezza. Prevalentemente intonata sul registro drammatico, sa conferire al dialogo, quando servono, incisive notazioni ironiche e perfino qualche sfumatura di umorismo. Nel prosieguo di una lunghissima carriera non ha mostrato stanchezze, non ha perso un colpo; e le sue dizioni di prose o di versi risultano più illuminanti di tante chiose professorali. Recitando, insegna. Dietro ogni sua prova si avverte non soltanto il miracolo naturale del talento, ma un instancabile studio, una dedizione assoluta e una buona dose di perfezionismo. Insomma, è vero che non ho sposato la Proclemer: ma tenendola in gran conto come persona, ho continuato e continuo a scoprirmi in sintonia con la sua arte come ai tempi meravigliosi del Gabbiano.      

 

Tullio Kezich