Vittorio Gassman: un altro maestro
 
 

Amleto con GassmanDal 1952 al 1955 ho vissuto tre folgoranti anni nella Compagnia di Vittorio Gassman. Teatro d’Arte Italiano, si chiamava, ed era diretta da lui e da Luigi Squarzina. In repertorio: Amleto (feci il primo anno Ofelia, ma non mi piaceva più di tanto; il secondo la regina, Gertrude. Mi trovai a fare la madre di Vittorio, che aveva un anno più di me).

Tre quarti di luna, di Luigi Squarzina. Una bella commedia e l’inizio di un bellissimo rapporto con Squarzina, che doveva dare, negli anni successivi, degli splendidi frutti.

Edipo re (di nuovo la madre di Vittorio,  Giocasta) – KeanSangue verdePrometeo incatenato. Dato che non c’era parte per me, feci la sua aiuto-regista nei Persiani di Eschilo. Mi comprai una bellissima tuta color carta da zucchero di velluto a coste, una serie di taccuini, gomme, matite, e mi aggiravo per la scena dandomi un sacco di arie. Dovevo essere odiosa. Forse fu allora che mi appiopparono il nomignolo: “Pallore gonfiato”. Però ero felice. Per la “prima” Vittorio mi regalò un giaccone di lana scozzese rossa e nera. Chissà chi l’aveva scelta per lui. Era bruttissima e mi stava anche male. La misi per un po’. Poi la feci sparire.

Edipo ReEro da sempre un po’ innamorata di Vittorio. Da quando lo vidi irrompere vestito di lustrini d’argento, bello come un marziano, dal fondo della platea del Quirino, nello stupefacente Oreste di Visconti (di nuovo Alfieri. Che sia un destino?) – gridando con quei suoi mezzi rutilanti (accanto a un attonito Mastroianni): “Pilade, sì, questa è mia reggia…Oh gioia!”  compresi che lo avrei amato per sempre e soprattutto decisi che ad ogni costo avrei dovuto lavorare con lui. Era il 1949. Tre anni dopo ero primadonna nella sua Compagnia.

Cosa mi ha insegnato Vittorio? Mi ha insegnato a scoprire i “piaceri della tecnica”. Avevo recitato per anni più o meno ignorando che esistono corde vocali, diaframma, glottide, emissione, fiati ecc.

Un po’ teutonica, come lui, del resto, mi buttai nella nuova esperienza con ardore sportivo. Avevo incollato attorno allo specchio della mia toilette dei foglietti. Dicevano, per esempio: “Non glissare!” (modulare in calando sulla finale di un’intonazione); “Sostieni le finali!” “Forza col diaframma!”; “Sostieni il fiato!” e simili iniziatici comandamenti.

Su consiglio di Vittorio mi feci visitare da un grande maestro di fonetica, il Prof.Decio Scuri (a suo modo un altro mio Maestro), il quale mi trovò una corda vocale un po’ rilassata, in seguito a uno sforzo su una cattiva impostazione. Mi diede degli esercizi, che eseguivo puntualmente.

Fu ancora Gassman che mi insegnò il parallelismo fra la recitazione moderna e certi termini sportivi. “Contropiede”, “anticipo”, “grinta”, “capacità di soffrire”. “rendimento alla distanza”, “sprint”, “condizioni psico-fisiche”, “superallenamento” ecc. erano termini abituali fra noi, riferiti alla recitazione. C’era forse un po’ di goliardismo in questo mio entusiasmo da neofita, ma allora non me ne accorgevo.Tre quarti di luna

Ci misi un paio d’anni, ad assimilare la lezione. Corsi anche il rischio di sopraffare le mie ispirazioni d’interprete con la massa delle nuove cognizioni tecniche. Poi raggiunsi, credo, un giusto equilibrio. Imparai a servirmi della tecnica senza più lasciarmene innamorare.

Ma, in fondo, la cosa più importante che Vittorio mi ha insegnato è che non bisogna prendersi troppo sul serio. Sì, il teatro merita il massimo del rigore, applicazione, puntualità, concentrazione, memoria; mai farsi trovare in fallo, mai farsi cogliere in un momento di debolezza, se si sta male stringere i denti e avanti!  Sì,sì,sì, tutto giusto… ma anche non dimenticarsi mai che stiamo giocando un grande GIOCO.

“Jouer” chiamano i francesi il recitare. “To play”, dicono gli inglesi. Stiamo giocando, signori; noi attori, saltimbanchi dell’anima, mistificatori a volte sublimi, spesso imbroglioni da strapazzo. Stiamo giocando. Stiamo ridendo di voi, di noi stessi e di tutto questo assurdo mondo che ci circonda. Avevano ragione a seppellirci in terra sconsacrata. Noi siamo degli “sconsacratori” di professione, degli eretici per vocazione insopprimibile. Siamo dei buffoni portatori di verità.

Povero, caro Vittorio. Me lo avevi insegnato così bene, perché tu lo sapevi così bene. E com’è possibile che questo non ti abbia salvato dal mostro della depressione, regalandoti una serie di salutari sberleffi nei confronti della “seriosità” del tuo male oscuro?  Non so darmene pace.

Ricordo le tue mani gelate e un po’ tremanti quando uscivamo per gli applausi dopo Significar per verba al  T.Argentina. Era il 1993. L’ultima volta che ci si incontrava su un palcoscenico.

Ecco, quel gelo è ora nel mio cuore, da quando non ci sei più.

 
     
 
Fine Compagnia Gassman
 
 

Gli ultimi mesi nella Compagnia di Gassman, nella primavera del 1955, furono molto tristi.

Vittorio litigava con tutti. Aveva litigato col fedelissimo Luigi Squarzina, amico di sempre;  litigava con la moglie Shelley Winters a causa di Anna Maria Ferrero, litigava con Lucio Ardenzi (ex cantante dell’Eiar), suo organizzatore e talmente suo devoto da essere soprannominato “la Sciarpa Vittorio”. Non litigava con me, ma solo perché io sono negata al litigio e mi sottraggo, però mi guardava in cagnesco.

Mi aveva diretta con tanto amore e tanta sapienza in Sangue verde  di Giovaninetti, insegnandomi un’infinità di trucchi per accattivarmi il pubblico e prendere un applauso a scena aperta nel secondo atto, in una forte scena che avevo con lui. Quando io misi a frutto i suoi consigli, e prendevo ogni sera il mio bell’applauso, mi guardava con odio, pallido e tirato, come se lo avessi mortalmente offeso. Quando uscirono le critiche e parlarono di un mio personale trionfo quasi mi tolse il saluto.

Io ne soffersi molto. Ma ero stanca, esaurita, non avevo voglia di lottare. L’ultima sera, al Teatro Manzoni di Milano, dopo l’ultima replica dell’Edipo Re, che concludeva il triennio del Teatro d’Arte Italiano, raccolsi in una valigia tutte le mie carabattole del trucco, le tende del mio camerino, le tovagliette, i cuscini, i dischi, e me ne andai, da sola, senza salutare nessuno. Ero quasi intontita dalla tristezza. Non era soltanto la porta di un camerino che mi chiudevo alle spalle. Mi stavo chiudendo alle spalle la mia giovinezza.

 
 
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